Colombirolino

distintivo sesta legione g.di.f

Colombirolino
Sto trascorrendo come una specie di vacanza di tre giorni, alloggiato con altri colleghi in una caserma di Cernobbio, una ridente cittadina posta sul lato sinistro del Lago di Como a pochi chilometri dall’omonima città. Sono in attesa di essere assegnato in modo definitivo al reparto dopo aver completato il corso allievi presso la Scuola Alpina di Predazzo. Ignaro di quello che mi aspetta approfitto di questo periodo per visitare i caratteristici dintorni. I paesi affacciati sul lago sono belli e tranquilli. Tutto farebbe pensare che sono stato destinato ad operare in un buon ambiente, a dispetto dei commenti raccolti, qua e là dai colleghi che descrivono caserme molto disagiate e con servizi da svolgere abbastanza pericolosi.
La comunicazione dell’assegnazione non tarda ad arrivare: “Brigata di confine di Colombirolino”, Il nome è abbastanza curioso. Il posto si trova sui monti circostanti a ridosso di una piccolo paese:
“Cavallasca”: un comune ora di 2.722 abitanti della provincia di Como ma forse a quel tempo erano ancora di meno.
Per raggiungere questa Brigata si devono percorrere circa due chilometri a piedi in mezzo al bosco. La sensazione che provo la prima volta non è tra le più felici. Mi prende un vuoto allo stomaco ed una profonda desolazione nel vedere lo scenario che si presenta ai miei occhi. In una piccola radura ricavata in mezzo alla boscaglia, proprio alle spalle del confine svizzero si erge una costruzione a due piani con una specie di balconata tra il piano terra e quello rialzato. In mezzo a questi, nella facciata principale, si scorge lo stemma del Corpo, a dimostrare che si tratta di una caserma della Guardia di Finanza. L’intonaco dei muri esterni chissà da quanto tempo reclama una buona manutenzione.
Una struttura insomma costruita unicamente con lo scopo di ospitare al suo interno il minimo indispensabile per la gestione di un piccolo reparto di frontiera. Al piano terreno troviamo pertanto l’ufficio per il comandante; quanto basta per lo svolgimento di essenziali operazioni, la mensa per il personale, la cucina con annessa dispensa e un locale adibito a servizi igienici compreso due docce. L’armeria è situata all’interno dell’ufficio. Al piano rialzato ci sono due stanze: una per l’alloggio del comandante, l’altra per il resto del personale composto in media da una ventina di militari. Questo è l’unico locale adibito a camerata, dormitorio. I letti sono a castello, il pavimento è composto da malandate assi di legno, grezzo. Anche se la pulizia del locale viene effettuata ogni mattina, spruzzando acqua per terra sempre si raccoglie polvere mista a lanugine, questa sicuramente provocata dalle vecchie coperte di lana che sono adagiate sopra le brandine. Il riscaldamento è quello con le stufette a gas. Non abbiamo neanche un armadio per custodire i nostri capi di vestiario. Devo provvedere per conto mio ad acquistarne due di plastica per sistemare la mia roba. Mi domando: “Ma dove sono capitato?”
Devo dire che tra tutte le sedi in cui ho prestato servizio nella mia carriera, questa è la peggiore sotto tutti i punti di vista a cominciare dalla sistemazione logistica, dai servizi da svolgere, dall’inesistente contatto con la gente del luogo, dai non buoni rapporti con gli ufficiali superiori da cui dipendo, insomma una situazione davvero critica.
Nonostante tutte queste avversità vado d’accordo con gli altri colleghi: quasi tutti della mia stessa età, con pochi anni o mesi di differenza, anche come anzianità di servizio. Siamo tutti nella stessa condizione e quindi, tra di noi si instaura un buon rapporto di solidarietà. Mal comune e mezzo gaudio.
Un chiarimento è necessario per illustrare meglio il contesto in cui stanno accadendo questi fatti.
Al tempo in cui mi trovavo in quella zona il contrabbando in genere, quello delle sigarette in particolare, era un fenomeno dilagante al punto che per contrastarlo lo stato italiano aveva fatto posare per quasi tutta la frontiera italo-svizzera una rete: la “ramina” come veniva comunemente chiamata dagli abitanti delle regioni di frontiera. In origine era munita di un singolare sistema di campanelli che allertavano la vigilanza quando gli spalloni tentavano di sconfinare. Il nome sembra derivare dal fatto che questa rete è di metallo come fosse di rame da qui il nome “ramina”.
In un certo senso questo fenomeno era anche tollerato. Nonostante fosse attività illecita era anche fonte di reddito per le popolazioni di confine, in tempi di crisi economica come lo era in quegli anni. Tuttavia si cercava di impedire questo movimento con azioni di contrasto; questo compito era stato affidato dalla Guardia di Finanza che aveva dislocato in quei territori di confine numerose caserme.
La vita in questi zone non era tra le più rosee; il personale che ne faceva parte era sottoposto a turni di servizio pesanti, ad ogni ora del giorno, della notte e sotto tutte le intemperie. Continui erano i controlli e le ispezioni dei superiori gerarchici. Vi erano anche delle limitazioni sulle frequentazioni dei locali pubblici dei paesi in cui era situato il reparto. Vietati i rapporti con la gente del luogo per evitare eventuali compromissioni e atti di corruzione. Il personale era composto tutto da gente giovane: l’età media si aggirava intorno ai 20-26 anni. La permanenza in questi posti in teoria non doveva essere superiore ad un anno, ma in pratica superava di gran lunga questo limite. Nel mio caso personale ci rimasi per ben 17 mesi.
Ho ancora vivissimo il ricordo di quando giovanissimo finanziere mi trovo a percorrere, da solo in mezzo al bosco, al tramonto, l’unico sentiero, che conduce in caserma, dopo aver fruito poche ore di permesso nella vicina città di Como. In questa circostanza un pensiero ricorrente assale la mia mente: “Anche se incontro adesso un gruppo di contrabbandieri non ho paura ad affrontarli. Posso benissimo intervenire, senza l’aiuto di nessuno. L’uniforme che indosso mi infonde coraggio. Mi sento orgoglioso della mia condizione. Non devo mollare, devo stringere i denti, tanto qui in questo posto non ci starò per sempre. Le cose cambieranno. Certo la mia condizione non è tra le migliori, penso agli amici che ho lasciato a casa, loro sono molto più liberi e possono divertirsi molto più di me. Tuttavia al loro paragone mi sento più importante. Ho un lavoro da svolgere sono utile alla società per quello che faccio nonostante, i turni di servizio pesanti effettuati sia di notte che di giorno e la severa disciplina.. Malgrado tutto ciò accetto di buon grado questo sacrificio .”

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